Prendiamo spunto da un recente dossier apparso su TIME del 18 marzo 2019 per fare qualche considerazione sulla situazione del Tibet. La versione semplice sarebbe quella di un paese in esilio, vittima dal 1959 della persecuzione del regime comunista di Mao e da allora progressivamente deprivato dei propri atavici possedimenti.
Questa visione semplificata è certamente vera. A patto di non confondere la leggenda dell’ “Orizzonte Perduto” (come la definisce Charlie Campbell, autore del richiamato dossier) con la verità storica: “il regno non fu mai una utopia agraria e spirituale. La maggior parte dei residenti vissero un’esistenza hobbesiana. I nobili erano strettamente legati in sette classi, con il solo Dalai Lama appartenente alla prima. Pochissimi tra le persone comuni ebbero anche un livello minimo di educazione e istruzione. La medicina moderna era proibita, soprattutto la chirurgia, ed anche malanni minori erano causa di morte. Le malattie erano tipicamente trattata con impacchi d’orzo, burro e orine di una vacca sacra. L’aspettativa di vita per le persone esterne alle caste era di 36 anni. A chi si ribellava, accusato di un crimine, venivano tagliate le mani, le braccia o le gambe, a seconda della gravità dell’accusa.
Anche il Dalai Lama ammette che il Tibet era secoli indietro e insiste che lui avrebbe voluto apportare riforme. In certo qual modo, si può dire che l’occupazione comunista, nello spirito del tempo, avesse alcuni elementi di ragione. Non altrettanto si può dire oggi, perché la Cina ha dato un’interpretazione non soltanto totalmente materialista, ma addirittura di un materialismo che si apre alla società dei consumi e al capitalismo, introducendo ulteriore confusione. Proviamo quindi a vedere dietro il velo e, per farlo, apriamo le pagine de Il Re del Mondo di René Guénon.
Nel farlo, eviteremo di fare ossequio ad un autore fin troppo esaltato e che pochi riescono a distinguere come tradizionalista reazionario. Se mai, una nota va fatta per parlare del caso editoriale italiano. Tutti sanno che Il Re del Mondo fu pubblicato nel 1977 da Adelphi, casa editrice che giustamente rivendica di aver infranto la barriera invisibile che non permetteva a testi di ispirazione mistica e irrazionale di penetrare nel campo letterario italiano dominato dallo stretto rigore realista e neo-realista cui si ispiravano Einaudi, Mondadori, Longanesi, Feltrinelli e gli altri maggiori. L’affermazione è vera, ma bisogna ricordare che questo libro apparve in fascicoli all’interno delle pubblicazioni mensili dell’anno 1924 della rivista Atanór: ciò significa che, riconosciuto il merito di Adelphi rispetto alla letteratura italiana, occorre anche riconoscere il ruolo di Atanór, sia come rivista che come casa editrice, nell’essersi fatta albergo per la letteratura sino a poco tempo fa non accettata dalle accademie.
Detto questo, veniamo all’argomento: e troveremo in primo luogo, per ammissione dell’autore medesimo, che il tema non è un’invenzione originale, ma si deve a un’opera postuma di Saint-Yves d’Alveidre, La Mission de L’Inde, e alle conferme di quanto ivi trascritto da parte di Ferdinand Ossendowski, che dichiara però di aver scritto il suo libro Bêtes, Hommes et Dieux prima di aver letto il libro di Saint-Yves, e di aver ottenuto informazioni coincidenti mediante il suo viaggio tra il 1920 e il 1921.
Il centro della storia è una pietra nera inviata dal Re del Mondo al Dalai Lama. In virtù di questa attribuzione, il Dalai Lama rivestiva il ruolo di Custode della Soglia dell’Agartthi, e il Palazzo del Potala a Lasah ne sarebbe il portale d’accesso.
Non dobbiamo considerare questa storia allegorica, o pur leggenda che si voglia dire, come esclusiva prerogativa della tradizione orientale: perché l’altro nome dell’Agartthi è Paradesha, da cui deriva il Pardes dei Caldei (e la famosa storia talmudica dei Quattro che entrarono nel Pardes).
Infine, non potremo certo trascurare la narrazione gnostica, in Pistis Sophia, della fuga di Gesù Cristo da Gerusalemme, e del suo viaggio in India per discendere nel luogo degli Arconti.
L’ha ribloggato su Fondazione M.
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